La frase stringata di Sergio Mattarella,eletto Presidente della Repubblica Italiana sottolinea due paroline chiave, difficoltà e speranza. Mi è piaciuto.
Un gancio perfetto per questo stralcio.
ESPERANZA
Autostrada Milano-Venezia
Andreas non faceva che pensare a quella ragazza che aveva conosciuto alla festa di Filippo. C'era qualcosa in lei che lo aveva colpito. Era particolare, si tirava fuori dalle solite, anche se non era bellissima. Aveva degli occhi e un sorriso incantevoli e una grazia un po' retrò. Pensava a Laureen mentre tornava a Milano, guidando nella nebbia e con la musica di Shade che lo accompagnava. Non che fosse alla ricerca disperata di una donna, aveva già una ragazza in Germania, stavano insieme da un anno, ma era un rapporto tiepido. Lei era frizzante come un bicchiere d'acqua minerale senza bollicine a temperatura ambiente d'estate. Andreas aveva preso i capelli biondi dal padre, tedesco, e gli occhi neri dalla madre italiana. Aveva anche ereditato il suo temperamento nella vita privata, mentre in quella professionale era teutonico come il padre. Simona gli aveva detto che l'amica era single da pochi mesi e gli aveva ridato il numero di cellulare che non trovava più, scarabocchiato su un minuscolo foglio da Laureen, quella sera. Mentre si riforniva alla stazione di servizio si accorse di qualcosa di bianco vicino al bollo, appiccicato al vetro. Lo prese e vide quel numero. Gli parve di buon auspicio. Aveva davanti un mesetto di duro lavoro, un paio di processi impegnativi, poi , poi aveva deciso di rivederla. Sorrise e riprese il viaggio. C'era ancora speranza.
Merida
Gabriella non riusciva a trattenere le lacrime e si dava della stupida. Con tutto quello che aveva passato nella sua lunga vita, andava a commuoversi per una novela che, puntuale, seguiva ogni giorno. Tornata a casa sua, ne aveva fatto indigestione, perché alla Residencia le ore di tivù erano centellinate per via della vista degli ospiti anziani, dicevano. Che premura! Oltretutto non le piaceva condividere quel suo piccolo svago con altri vecchi rincitrulliti: lei si sentiva ancora giovane, aveva ancora molto da dare. Non aveva mai avuto rimpianto per l'Italia, molti compatrioti invece, erano tornati là. Però tifava per l'Italia, in ogni sport e quando correva Valentino, diceva le avemarie perché non scivolasse battendo la testa. Venezia la portava nel cuore, come tutti quelli che l'avevano vista almeno una volta. Aveva dovuto imparare lo spagnolo per forza, perché la sartoria che aveva messo su, soldo dopo soldo, era frequentata da signore che, anche se venivano dall'Italia, parlavano in modo incomprensibile, il napoletano, il piemontese, il trentino… per non parlare di quelle che erano immigrate da altri Paesi. Almeno con un'unica lingua ci si capiva. Lo leggeva con più fatica, però lo leggeva. Ma quando poteva parlava sempre in italiano, lingua in cui s'impigliava ogni tanto qualche termine veneto.
Ecco, adesso Paco stava confessando il suo amore a Maria che però aveva scelto Nando anche se, in segreto, non era lui che amava. E Gabriella piangeva dandosi della stupida, mentre sferruzzava velocemente senza mai guardare il gomitolo. Mario la prendeva sempre in giro, ma gli uomini non capiscono niente di sentimenti. Come suo figlio Antonio. Miguel era diverso. E anche Carlo, fino a che era stato un ragazzino normale, lo era. Di certo dovevano aver preso dalle loro madri. Quell'unico nipote era stato la sua gioia durata troppo poco per quel maledetto incidente. Lei aveva consolato la nuora, ma chi si occupava del suo dolore? Poi Maristella le aveva confidato dell'altro piccolo. Quella donna era talmente buona che a volte Gabriella pensava che fosse stupida: lei avrebbe preso a badilate il Mario, se le avesse messo i corni… un figlio poi! Ma povera stella che colpa ne aveva lui? Gabriella aveva chiesto di conoscerlo e lo aveva amato da subito. Era pur sempre suo nipote, anzi prima di tutto era un bimbo trattato ingiustamente. Si era creato un legame tra loro, un rapporto dolcissimo, fatto anche di tante risate. Aveva approvato e appoggiato la nuora di nascosto e quando Antonio aveva deciso di riconoscerlo, lei sapeva bene che lo faceva per qualche tornaconto. Non aveva indagato e non le interessava perché ora era libera di donare il suo affetto di nonna alla luce del sole. Il ragazzo era diventato uomo, era ora che mettesse su famiglia. Quando lo vedeva sul giornale con qualche donna gli telefonava per sapere. Lui, abbottonato con tutti sulla sua vita privata, la prendeva in giro: «Abuelita, mi vuoi con la corda al collo? No non è quella», gli rispondeva ogni volta. Quando l'aveva visto con la biondona, quella volta le aveva confidato: «Forse, nonna, forse è quella» . E l'aveva visto sempre più spesso con lei. Infine l'aveva conosciuta e non le era piaciuta per niente, così d'istinto. Il suo Miguelito meritava ben altro.
Così quando l'aveva sentito l'ultima volta al telefono, con quella voce tinta di allegria e quelle parole che gli raccontata di quella nuova ragazza bè… le si era aperto il cuore alla speranza.
Venezia Terra Ferma
Oddio! Quasi se n'era dimenticata! Laureen si fece una doccia rapidissima, passò davanti alla stanza di Miguel: lo sentì parlare forte in modo secco in spagnolo: probabilmente si stava occupando dei suoi affari oltre oceano, quindi decise di non interromperlo. Si fiondò in macchina, per fortuna che Armido, e chi sennò?, aveva già aperto il portone.
«Fabio, Fabio! Accidenti dove sei?»
«Che ti prende Laureen?»
«Chiama Daniele, digli che confermi gli ordini ai danesi, io mi occupo del legno. Abbiamo i soldi per la fornitura!»
«Ma come… ?»
«È una storia lunga, intanto sappiamo quello che vogliono, metti i ragazzi a lavorare col materiale che abbiamo!»
«Ma Lauri, e dopo?»
«Dopo dopo… non lo so, Fabio. Intanto manteniamo la parola!»
Umberto, artigiano sulla quarantina, suonò la carica: «Forza ragazzi, al lavoro! Chissà come mai i danesi vogliono i nostri mobili, invece che comprare dai cugini. Eh sì che sono separati da un ponte!»
«Perché nei loro castelli in mezzo alla campagna, vogliono roba bella, pezzi unici come i nostri!», gli ribatté Daniele, di solito taciturno.
La polvere del legno, il fragore del lavoro, mischiato a quello di un caffè di una moka enorme che qualcuno aveva messo sul fornello, la voglia di lavorare, avevano messo tutti di buon umore. In radio stavano passando un brano degli Stones. "Let's drink to the hard working people". Laureen riconobbe Salt of the earth: Brindiamo alla gente che lavora sodo…".
Nessuno l'avrebbe ammesso ad alta voce, ma dentro di loro s'era riacceso un piccolo barlume di speranza.
Casa Venier
«Armido, mi vuoi spiegare perché hai fatto quella faccia quando la Lauri ti ha presentato il signor Miguel?»
Per tutta risposta lui brontolò qualcosa in dialetto. Clelia alzò gli occhi al cielo. Quando si erano conosciuti e innamorati, lei gli aveva insegnato pazientemente a parlare in "grammatica", perché una coppia di servitori di case per bene, non deve sembrare una coppia di zoticoni.
«È stata una prima idea che ho avuto quando l'ho visto: sai che sono molto… insomma mi ricordo bene il fisico delle persone»
«E allora? Non dirmi che lo conoscevi già!»
«Ma no! Ma ti ricordi il giorno che il povero padrone è morto?»
«Il giorno me lo ricordo, ma io non ero qui. Stavo in Friuli dalla Irene che aveva bisogno di assistenza», e si fece il segno della croce.
«Lo so, ma io c'ero. Stavo potando le rose nel parco e ho incrociato quell'amico del padrone. Quasi ci siamo scontrati e l'ho visto bene!»
«E… »
«Niente, pareva un signore distinto»
«Allora? Santa Lucia! Mi sta venendo il latte ai ginocchi! Parla!»
«Ma poi li ho sentiti urlare e poi il povero padrone ha preso la macchina appena l'altro è andato via e… l'altro era alto, magro, lo stesso naso, la stessa bocca di questo ragazzo, del segretario. Pare suo figlio, non so… »
Clelia aveva intuito i timori di lui. Non c'era stata nessuna inchiesta, nessuno aveva parlato di amici o nemici, ma non aveva motivo di dubitare di Armido.
Aveva capito subito i suoi timori. Pregò che non fosse vero, che Miguel non fosse il figlio di quello e che quello non c'entrasse nulla col povero Vittorio. Perché la sua bimba non dovesse soffrire.
«Ma forse ti sei sbagliato, sai?»
«Sì, forse. Era nuvoloso e magari ci ho visto male io», non voleva turbarla.
«E poi avevo ancora le cataratte… »
«Ah ecco!»
"No , il signor Miguel non c'entra niente con quella brutta storia. La mia bimba non si merita altro dolore", pensò Clelia, mentre la speranza riprendeva a respirare.
Esperanza
La grande casa era silenziosa, si sentivano solo gli uccellini cinguettare e, in sottofondo, la risacca. Esperanza fece un giro di ricognizione, giusto per orientarsi. C'era la guardia al cancello, così si sentiva più tranquilla: le faceva una certa impressione restare sola, o forse, aveva paura. Era grata a Josepha per quel nuovo lavoro, ne aveva bisogno davvero con un marito in carcere e tre figli. Trovò subito l'occorrente per le pulizie e si mise di buona lena. Era una donna sulla quarantina, ma dimostrava una decina d'anni in più: le disgrazie, le preoccupazioni e i dispiaceri avevano lasciato il segno. Da sei mesi Thiago era chiuso nel carcere di Los Teques per traffico di stupefacenti e ne sarebbe uscito dopo anni, almeno sei. Una volta al mese andava a trovarlo e ogni volta le pareva di entrare all'inferno. Il marito cercava di nasconderle ciò che accadeva là dentro, ma lei l'aveva saputo dalle altre disgraziate compagne: il cibo era scarso e pessimo, la solita arepa, farina di mais fritto con sardine e acqua, tutti i giorni. I soprusi delle guardie all'ordine del giorno. Ai malati venivano lesinate le medicine. Se si voleva qualcosa bisognava pagarlo il triplo, alla banda che comandava là dentro. Thiago aveva commesso una stupidaggine, ma d'altronde era disperato, senza lavoro, con famiglia. Era stato tentato più volte in passato, poi s'era deciso a fare quel lavoretto sporco. L'avevano beccato la prima volta.
Mentre puliva con vigore il bagno azzurro, il piccolo si era svegliato e reclamava il suo pasto. Esperanza si lavò le mani e si sedette su un divano in salone, poi tirò fuori una mammella. Era una fortuna che Josepha le avesse procurato del lavoro e che l'avesse rassicurata sul piccolo."Certo che puoi portarlo con te, che domande!". La Sneider non li sopportava i bambini e ogni volta le si stringeva il cuore a lasciarlo ai vicini perché loro no, che non potevano allattarlo. La padrona non doveva neanche sapere che lei faceva le pulizie in altre case, ma pretendeva che andasse a casa sua solo quando lei era presente, sosteneva che non si fidava. La paga era giusta, ma quando non lavorava non prendeva nulla e la padrona stava spesso in giro per il mondo. Poi il lavoro diventava più gravoso, al suo rientro. Avrebbe voluto andarsene, per essere libera di prendere tutti i lavori che le offrivano, ma non poteva.
Finì di allattare il bimbo che, sazio, riprese a sonnecchiare, posò la cesta in terra vicino a un piccolo tavolino rotondo: c'erano tanti portafoto preziosi e in una riconobbe Josepha che sorrideva abbracciata a un bel ragazzo alto: doveva essere suo figlio, anche se non le somigliava per nulla. Incuriosita osservò la foto più da vicino, spolverandola con un panno umido. Riconobbe l'uomo che ogni tanto veniva al residence, quello sui giornali insieme alla padrona. Era lui, aveva degli occhi inconfondibili. Terrorizzata, posò tutto come se scottasse. La Sneider non doveva sapere niente, si sarebbe arrabbiata due volte e l'avrebbe punita. Ma, per amore di Thiago, Esperanza non poteva licenziarsi. La padrona era amica della direttrice del carcere, anche lei di origine tedesca, e, grazie a quell'amicizia, suo marito riceveva le medicine per il suo diabete e del cibo adeguato. Forse non era poi così cattiva, altrimenti perché l'avrebbe fatto?
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